Archivio per aprile 2010

Lo spigolo del Gran Sasso – Invernale!

Quel giorno mi sarebbe piaciuto andare a vedere la presentazione di Cristoph Hainz. Era anche l’occasione di tornare a L’aquila e perchè non metterci una scalata al Gran Sasso. Il problema come al solito è trovare il compagno di cordata. Uno che non abbia impegni il sabato sera improcrastinabili, che sia appassionato di montagna e che sappia anche un po’ arrampicare. Come non mai la risposta arriva fulminea, Fabio si libera. Partenza alle 5e45 del mattino come al solito. Arriviamo alla funivia in tempo solo per la seconda salita. Alle 9 siamo su e comincia l’avvicinamento allo spigolo S-SE del Corno Grande al Gran Sasso.

Le condizioni quest’anno sono particolari, c’è tanta galaverna sulle pareti. La sorpresa nasce quando Fabio disperato mi confessa che ha dimenticato l’imbrago a casa… “Mi dispiace per la salita!”, “Non ti preoccupare ho un paio di fettucce in più…”. Arriviamo all’attacco dello spigolo che sembra in condizioni terribili. Tuttavia l’ho fatto già altre volte in inverno e so dove passare. Il primo tiro è come sempre, roccia, un friend nella fessura di attacco, e poi un micro in alto e via di run out in sosta.

Ora riesco a mettere a fuoco quella strana sensazione. E’ tutto bianco, incrostato di neve, in parte ghiacciata. Mi sale un emozione strana…Scozia! “Qui è meglio che in Scozia!”. Comincio a battere la piccozza nella neve pressata ed ogni tanto picchio troppo forte e la becca sbatte sulla roccia sottostante. Il gioco “tiene o non tiene” diventa quasi morboso. Su questa salita ci sono quattro passi delicati in inverno che possono cambiare drasticamente a seconda delle condizioni. Il 3° tiro dopo il traverso, la placchetta di 4° al 5° tiro, il 6° tiro e quello che io chiamo il naso perché quando lo passi ti sembra di saltare su un monolite a forma appunto di naso. Ed oggi sono tutti e quattro molto impegnativi ma il momento più difficile è la placchetta di 4°. Il 4° non è difficile d’estate, ma d’inverno, con la crosta di neve sopra, senza sapere se tutto questo terrà o viene giù è tutto un altro impegno!

La placca è protetta con una serie di chiodi incassati nella fessura strapiombante che sovrasta la placca che ha alla sua base un vecchio chiodo. Il fatto che oggi ci sono circa 40/60 cm di crosta nevosa che intasano la fessura e coprono tutti i chiodi.

Non solo, questa neve non è ghiaccio ed è essenzialmente inconsistente. Tra l’altro la placca è liscia già d’estate, figuriamoci con i ramponi ai piedi. Parto con lo zaino sulle spalle. Metto il rinvio sul primo chiodo e proseguo. Punto i ramponi su rotondità della placca, sviluppo l’aderenza di punta di ramponi. Le picche tagliano la neve, cerco di battere nella fessura per trovare un pò di ghiaccio ma con la fessura a forma di camino che mi chiude dietro le spalle sono costretto a tenere l’equilibrio e lo sbandieramento facendo forza sulle punte dei ramponi. “Occhio Fabio…”. Salgo un altro paio di metri.

E’ una lotta impari ma quanto mi sto divertendo? Poggio una spalla contro la parete, picchio con la piccozza che ho nella mano destra facendole fare una rotazione da sinistra a destra per conficcarla più in alto e dentro la fessura “Ci sara un pò di ghiaccio!”. Qualche secondo dopo sento le picche scivolare, lasciano due stretti binari nella neve. i ramponi scintillano sulla placca lasciando puzza di zolfo. Comincio a sbattere a sinistra e destra e ricordo bene i mignoli stretti a morsa sulle picche che bruciano strusciando sulla parete. Mi ritrovo a guardare verso l’alto, conficcato e rimbalzato nella neve otto stramaledetti metri più in basso. Mi fanno male le nocche. Ho un sorriso da idiota stampato sul volto.

Arranco sulla corda per rimettermi dritto. Le ginocchia reggono. Non sudo neanche una goccia. Guardo Fabio stupefatto “Non credevo che saresti volato! Che facciamo scendiamo?”, “Ma che stai fori, mò c’è da divertirsi!”. Tolgo lo zaino dalle spalle. Ho i movimenti ben memorizzati, ma stavolta devo guardarmi alle spalle. Riesco a ruotare completamente la battuta della picca verso la parete che ho alle spalle. Mi giro e mi alzo sullo strapiombo della parete che si chiude a fessura sulla placca. Mi alzo, controllo la sbandierata. Poso la punta del rampone su un buchetto obliquo, lo carico fino allo spasimo. Lascio una picca infilata alle mie spalle. Allungo verso sx dopo aver cambiato mano sulla piccozza piantata in mezzo ai due binari lasciati nella caduta. Due linee dritte che tagliano la neve in verticale. Mi alzo altri due metri, uso il ginocchio per salire. Esco. Urlo. Impossibile proteggere. Vado su per altri 20 metri. Sosta.

C’è un altro tiro complicato. Le condizioni sono fantasmagoriche. Ho in faccia una vela di 60 cm. Spacco ed allugno. Un friend in basso e nient’altro. Io vado per la mia strada. Il resto è storia. Fabio si fà una foto all’imbrago ed esclama: “Però la pensavo più difficile…”.

Ama Dablam – Tsuro Ri – Human Rights 1945

Human Rights 1945, Valle del Khumbu – Parete Nord Tsuro Ri – Ama Dablam

IO!

Siamo seduti in un lodge a Dingboche, di fronte abbiamo l’Ama Dablam con la sua parete Nord e siamo ad un giorno dal campo base dell’Island Peak, nella valle del Khumbu in Nepal. Seduto al mio fianco un po’ in tensione c’è un amico di sempre, Stefano Pontecorvi, che ha deciso di accompagnarmi nella prima parte di questa avventura. Voleva scalare un 6000m e l’Island Peak raccoglieva entrambe le nostre esigenze per lui l’impresa e per me un acclimatazione come si deve.  Abbiamo vissuto un esperienza che rimarrà indelebile nei nostri ricordi ed un amicizia che si stringe ancora di più. In quel preciso momento Stefano si alza, io ero assorto nei miei pensieri, seduto sulla panca del lodge, con una tazza di thè nella mano, con lo sguardo rivolto a quella parete “ Io vado, mi raccomando!”, “Ci vediamo in Italia”. Il gruppo si separa, Stefano e gli altri proseguono per la loro strada io ed Andrea Di Donato rimaniamo a guardarci l’un l’altro.

L’obiettivo di questa spedizione doveva essere il Cholatse, da Nord. Ma da quando ho visto quella linea ne sono rimasto stregato. L’Ama Dablam 6856m ha una spalla con una cima che si chiama Tsuro Ri di 6150m. Le linee di ghiaccio che ho notato, molto evidenti percorrono la parete Nord dello Tsuro Ri ed escono poco a destra della vetta e si ricollegano alla cresta Cartwright. La cresta NO fu aperta in 9 giorni, 11 se consideriamo la discesa dalla vetta dell’Ama Dablam, e ci sovrasta, ci attornia. Mentre riordiniamo il materiale prendiamo una decisione. Vale la pena provarci, l’idea di cavalcare quelle linee e di salire sulla cresta Cartwright per poi raggiungere la vetta dell’Ama Dablam è troppo entusiasmante per non fare almeno un tentativo.

Paretei nosrd a sx Ama Dablam a dx Tsuro Ri

Il 17 novembre facciamo una perlustrazione arrivando non lontano dal traverso che porta all’attacco del canale, l’inizio della salita. Guardiamo attentamente la parete e comincia a venirci qualche dubbio sulla consistenza delle linee di ghiaccio. In alcuni punti non si capisce bene se le linee sono neve pressata o ghiaccio vero. Siamo molto dubbiosi soprattutto per quello che ci sembra il tratto chiave della salita. La parte alta della parete sembra avere una rampa nevosa che la taglia di netto e dovrebbe permetterci di raggiungere la cresta.

Il 19 novembre alle 2,00 di mattina partiamo per l’avvicinamento. Sono emozionato, carico e concentrato allo stesso tempo. Ci vogliono circa 5 ore per calpestare la prima neve. Gli zaini sono leggeri, ma non troppo, se tutto andrà bene rimarremo in parete 5 giorni. Il cibo, il gas, ed i sacchi a pelo sono i pesi più grandi. Bisogna analizzare tutto, e cerchiamo possibili vie di fuga dalla parete e non sembra ce ne siano, almeno non evidenti dal basso. Una volta raggiunta la cresta non è possibile scendere a sud e forse c’è una minima possibilità di scendere dall’intaglio tra l’Ama Dablam e lo Tsuro Ri a nord, una discesa su ghiaccio e neve da un colle verso il vuoto.

Abbiamo bene in mente che ci sarà una ‘deadline’ oltre la quale tornare indietro sarà veramente difficile. Raggiunto l’intaglio ci saranno altri 800m circa per raggiungere la vetta dell’Ama Dablam. E’ come se nella testa avessi diviso in sezioni la salita, avvicinamento, canale di attacco, la parete nord dello Tsuro Ri, la rampa nevosa con gli ultimi 200/300m di arrampicata, la cresta Cartwright fino all’intaglio ed altri 800m per la vetta dell’Ama Dablam ed ultima la discesa per la via normale.

Uno dei tiri più aleatori!

Il canale di attacco non è difficile 400/500 m con qualche risalto a 55/60° che percorriamo velocemente e di conserva, arriviamo finalmente all’attacco della parete. Sin da subito ci rendiamo conto che le condizioni non sono buone. Quello che ci aspettavamo come ghiaccio in realtà è neve compressa attaccata alla parete. Inconsistente e difficile da proteggere. La salita si fa subito più laboriosa di quello che ci aspettavamo. Abbiamo arrampicato fino alle 16,00 del pomeriggio quando cominciamo a guardarci attorno per cercare un posto decente per fare un bivacco.

Proprio alla base di un risalto, il più difficile della salita, abbiamo incontrato un accumulo di neve, un cambio di pendenza che collega due risalti. Abbiamo cominciato a scavare fino ad ottenere una truna dove poter bivaccare. Piccola ma abbastanza grande da poterci stare in due sdraiati. I tiri di corda fin qui saliti sono stati impegnativi da proteggere e con tratti tra gli 80 ed 85° su neve per lo più inconsistente. Le poche protezioni che siamo riusciti a piazzare le abbiamo messe sui bordi, dove la roccia affiorava e ci permetteva di assicurarci con un friend o con un chiodo. Spesso siamo stati costretti ad arrampicare in conserva assicurata su tiri lunghissimi per la difficoltà trovata nel piazzare una sosta prima dei 60m.

Bivacco nella truna.

La notte trascorre insonne. Le difficoltà tecniche non sono elevate ma il fatto di continuare a salire praticamente sprotetti ci mette decisamente alla prova. Abbiamo trovato un buon feeling con Andrea, senza troppe parole ci alterniamo al comando. Cuciniamo qualcosa ed ascoltiamo musica. La mattina successiva ci mettiamo subito all’opera. Sento però che qualcosa non va. Come se il sogno di questa linea, questa nostra espressione si stia per interrompere. Scaliamo a tiri alterni. Andrea passa al comando e fa due tiri di seguito mentre io isso gli zaini. Non ci si può fidare delle soste. Arrampico con due zaini, uno sulle spalle ed uno appeso all’imbrago. Raggiungo un dado incastrato sul bordo di una sporgenza ed aspetto che fissi una sosta decente. Arriva l’ok, mi slego dalla seconda corda e lego lo zaino da issare.

Vai su che è meglio!

Affronto un tratto di misto verticale. La neve è inconsistente, i ramponi grattano sulla roccia, cerco le sporgenze nascoste. Le punte trovano qualcosa, mi si chiude lo stomaco, mi fido, tiro sulla picca e passo. Arrivo alla sosta e vedo due piccozze nella neve al posto della sosta. Una sporgenza di roccia non ci permette di capire con esattezza se la rampa obliqua di neve esista per davvero o se sia stata solo un’illusione. Lo scopriamo da lì a breve. Andrea prende le mie picche e riparte. La quota comincia a farsi sentire, è in difficoltà su un tiro di misto dove la neve a questo punto non è più compressa ma semplicemente polvere che copre la roccia. Con movimenti cauti riesce a tornare indietro. Leggero, a volte esitante, con movimenti delicati riesce a fare a ritroso quei 30 m di misto dove era riuscito a mettere una sola protezione. Arriva in sosta esausto. E’ tardi. Ci rendiamo conto entrambi che dobbiamo prendere una decisione. Cerchiamo un posto da bivacco ma la parete qui è verticale e l’unica soluzione sarebbe dormire appesi all’imbrago.

Le parole di Andrea mi risuonano ancora nella testa” Quella non è una rampa, lì su ho visto una parete di roccia nera e gialla alta 200 o300m e non ho visto nessun posto per bivaccare. La fessura si chiude su e non fa cengia”. La decisione è stata presa insieme, silenziosa, si scende! Il nostro unico pensiero è raggiungere il bivacco della notte precedente. La deadline non l’abbiamo superata ma le discese dobbiamo farle su funghi di neve, su chiodi singoli, i pochi rimasti, friend e dadi incastrati alla meglio nelle fessure. Ogni volta che uno comincia a scendere in doppia l’altro si sgancia, meglio uno che due se qualcosa va male. Nessuno dei due vuole essere causa di sciagura per l’altro. Bivacchiamo ed il giorno successivo continuiamo la discesa. Prima di sera siamo a Dingboche. Qualche giorno dopo ci spostiamo al campo base del Cholatse ma un infortunio all’avambraccio di Andrea ci impedisce di continuare a scalare e decidiamo di rientrare in Italia.

Le due vette tra le nuvole.

Continuo a chiedermi se quella parete sia scalabile. Se quegli ultimi 200 o300m a 6000m di quota abbiano un punto debole. In fondo non l’ho potuta osservare bene. Continuo a chiedermi se quella misteriosa rampa di neve esista veramente oppure è stata una semplice illusione ottica dovuta alle prospettive. Più continuo a farmi domande e tanto più ho il desiderio di ripartire, di confrontarmi nuovamente con quella linea che mi ha stregato. Una montagna da favola ed una linea dritta come una spada, giochi di equilibri. Abbiamo dato un nome a questo tentativo “Human Rights 1945” e mi piacerebbe che se qualcuno un giorno tornasse a scalarla mantenesse il desiderio che ho di chiamare la via con questo nome. Affinchè ognuno che passi di lì e guardi quel tentativo di salita possa pensare alla carta dei diritti umani coniata da Eleanor Roosevelt alle Nazioni Unite. Chissà magari un giorno saremo proprio noi a tornare, mi piace pensarlo, mi piace lasciarmi stuzzicare dall’idea, per continuare sognare!

Daniele Nardi

Desidero ringraziare Salewa per il supporto tecnico che in questi ultimi anni mi ha dato e con il quale posso permettermi di scalare più tranquillo e soprattutto dove voglio.

Tracciato della salita.


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